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Le avventure della Gastronomica al volante
Inutile dire che ho optato per la seconda, anche se, devo ammetterlo, ho commesso un grave errore tattico e ho scelto il mio compagno di banchetto in quel di Torino, più o meno a novecento chilometri di distanza da casa mia. Che devo farci, in questi casi è questione di affinità elettive, e il sodalizio con Erre dura ormai da vent’anni, vale a dire da quando ero una giovane emigrante nostalgica della genovese e del ragù di mammà, e lui mi consolava portandomi in giro per ristoranti a scoprire le gioie della cucina piemontese.
Adesso fra noi funziona più o meno così: una volta ogni paio di mesi ricevo da Erre una telefonata con la quale mi comunica che sarà a Napoli il giorno dopo (mai che si annunci con un po’ più di anticipo) e mi chiede con trepidazione dove lo porterò a cena.
L’ultima volta Erre mi ha chiamato nella tarda mattinata del primo maggio, quando già era salito sul treno per Napoli.
– Arrivo in serata. Dove mi porti?
– Erre, ma è il primo maggio… fra ristoranti chiusi e quelli già tutti pieni sarà complicato trovare un posto. Almeno fammici pensare un momento!
Così medito a lungo perché, anche se Erre non lo sa, gli sfizi prima di farli togliere a lui devo togliermeli io, e alla fine telefono a Pietro Parisi, chef e patron di Era ora, ristorante in quel di Palma Campania.
Io e Pietro ci siamo conosciuti un paio d’anni fa, sul web. È da allora che propongo al consorte di andare a cena nel suo ristorante, ma lui si rifiuta categoricamente. Non ci pensa proprio a farsi un’ora di auto all’andata e una al ritorno solo per andare a mangiare! (Però quando va a lavorare in provincia succede che spesso sulla via del ritorno si perda e, guarda caso, vada a finire proprio a Palma Campania e mi faccia delle telefonate importune nelle quali mi chiede con una vocina dispettosa “indovina dove sono?”)
Così mi accordo con Pietro e prenoto un tavolo per le nove, contando sul fatto che Erre arriverà a Napoli alle sette. Poi però succede che Erre perda la coincidenza e accumuli un’ora di ritardo, che la mia auto decida di morire dopo aver fatto venti metri, che l’auto di mio padre, presa in prestito in extremis, abbia il navigatore rotto, che improvvisamente tutti i napoletani abbiano deciso di dover mettersi in auto e, guarda caso, fare proprio lo stesso percorso che devo fare io per arrivare all’albergo di Erre. Così, ancora prima di incontrarci e lasciare Napoli, io e Erre abbiamo la consapevolezza che, ahimé, non saremo da Pietro prima delle dieci.
Recupero Erre al volo e, senza neanche perdere tempo a salutarlo, gli schiaffo in mano il mio iPhone dicendogli che non ho idea di dove andare e imponendogli di fare da navigatore, sfruttando l’app del mio cellulare. Ma purtroppo Erre non è un nativo digitale e quindi non sa neanche da dove cominciare, come mi ripete più volte credendo di suscitare la mia comprensione e ottenendo invece di rendermi sempre più insofferente.
Insomma, finisce che neanche abbiamo imboccato l’autostrada e già ci siamo persi. Fra me che da brava miope/presbite/astigmatica/fotofobica leggevo un cartello stradale sì e tre no, Erre che continuava a maneggiare il mio telefono come fosse un ordigno nucleare, il buio e le chiacchiere, dopo un po’ scopriamo non solo di essere diretti a Bari, ma di esserci anche quasi arrivati.
Dopo tre telefonate a Pietro per spostare la prenotazione (“non vi preoccupate, quando arrivate arrivate”, ha risposto l’ultima volta), una conversione a U che neanche San Paolo sulla strada di Damasco, un momento di sconforto nella solitudine dell’aperta campagna, la richiesta di informazioni a due distinte signorine semi ignude che quando hanno capito che non eravamo interessati a del simpatico sesso di gruppo a pagamento ci hanno mandati a quel paese, non so neanche io come, siamo arrivati al ristorante.
E finalmente ci siamo rilassati.
Andare a cena da Pietro Parisi è come entrare in una macchina del tempo in cui presente e passato, nuove scoperte e vecchi ricordi, esistono contemporaneamente. Questo accade perché la cucina di Pietro è caratterizzata da un lavoro certosino di riscoperta di ingredienti della tradizione contadina ormai dimenticati – per esempio le erbe selvatiche come il silene o la portulaca – utilizzati però con tecniche moderne.
Pietro è forse la persona più tenace e integra che io abbia mai conosciuto. È un uomo che si è dato degli obiettivi e, in modo lento ma inarrestabile, li ha raggiunti tutti, senza per questo perdere l’umiltà che è tipica di chi è davvero intelligente. Perciò, ancor più della cena – durante la quale molti piatti sono stati una piccola epifania – io ed Erre ci siamo goduti il dopo cena, con Pietro seduto al nostro tavolo che ci parlava di sé, della sua famiglia – a partire dalla nonna Nannina, maestra di cucina e di vita, per finire alla nipotina Carmen e alla figlia Antonia, che non ha ancora compiuto un anno – della sua formazione in giro per il mondo e della scelta di tornare poi a casa, aprendo un ristorante in un territorio difficile, ma che Pietro ama ed è determinato a valorizzare.
Così, fra un bicchiere di vino e l’altro, Pietro ci ha raccontato della pizza a lievito fujuto, impastata usando il siero della mozzarella, dei seccamienti, un antico metodo di conservazione delle verdure estive che usa regolarmente, e dei VOLTI, vale a dire i piccoli coltivatori e allevatori locali da cui Pietro si rifornisce e le cui facce belle e antiche sono immortalate sul menu/magazine di Era Ora.
Salutiamo Pietro che ormai l’una di notte è passata già da un po’, e ci mettiamo in macchina con quell’allegria indolente che segue le esperienze felici. Addirittura azzardiamo una canzone di Mina, visto che lo stereo dell’auto di mio padre si è acceso autonomamente e non riusciamo a spegnerlo. Stavolta Erre ha preso confidenza con l’iPhone e quindi procediamo sicuri verso la meta, fin quando non vediamo all’orizzonte una pattuglia dei carabinieri.
– Adesso ci fermano, boia faus!
– Erre, non secciare!
– Ci fermano e ci fanno l’etilometro!
– Erre, smettila!
– E ci ritirano la patente, e ci sequestrano anche l’auto!
– Erre, ti ricordo che sei un semplice passeggero. Rilassati!
Naturalmente ci fermano, in virtù di quella regola non scritta per cui se devi fermare un tot di auto durante un turno di notte nell’hinterland napoletano, meglio che il conducente e il passeggero abbiano l’aria paciosa e affidabile.
Erre suda freddo, convinto com’è che solo una manciata di minuti ci separi dall’inevitabile arresto, e rischia la sincope quando il carabiniere, oltre ai miei documenti, richiede anche i suoi. Il controllo che segue è talmente lungo, e la situazione talmente ridicola, che a me viene la ridarella. Erre mi sibila di smetterla. Si accorgeranno che sono ubriaca e mi faranno l’etilometro! Inutile ripetergli che dei due l’unico brillo è lui, né che quello dei carabinieri è un controllo di routine, Erre si rilassa soltanto quando il carabiniere ci restituisce i documenti e ci dice che possiamo andare, non prima però di averlo redarguito. Lui che è un giornalista torinese non scriva male dei carabinieri napoletani!
Erre promette solennemente, e così ci rimettiamo finalmente in viaggio, ma quando al primo bivio gli chiedo indicazioni, mi confessa timidamente che durante la nostra sosta forzata ha dimenticato di spegnere il navigatore dell’iPhone, che ora è irrimediabilmente scarico.
Propongo di tornare indietro e chiedere indicazioni ai carabinieri, ma Erre comincia a tremare alla sola idea e mi chiede invece di fidarmi del suo proverbiale senso dell’orientamento. È sicuro che riuscirà a trovare la strada di casa! Ora, ricordo perfettamente che una volta io ed Erre ci siamo perduti nel centro di Torino, sua città natale, ma decido di dargli fiducia e faccio bene perché, grazie a lui, nelle successive due ore di pellegrinaggi alla cieca, scopro zone della provincia, ma anche di Napoli, che mai avrei sospettato esistessero e che mai saprei ritrovare.
Arriviamo al suo albergo, dopo un rocambolesco senso vietato, che ormai è l’alba. Lui ripartirà dopo poche ore, giusto il tempo di farsi una doccia, vedere una mostra, e poi sarà di nuovo sul treno. Mi saluta con un paio di quei baci pudici dei torinesi, e poi mi fa un’ultima domanda:
– La prossima volta mi porti a cena da Annamaria Varriale?
No caro Erre, non ti ci porto. Da Annamaria Varriale non ci andremo fin quando non avrai capito che quella che tu credi si chiami Annamaria Varriale è in realtà Marianna Vitale.
E comunque, non prima che io abbia comprato una vecchia, cara, affidabile cartina stradale.
La prossima volta meglio andare sul sicuro.
Che pizza!
Piazza Sannazzaro, 201/B
Napoli
Tel. 081 19204667
Un ca-popò-popò-popò-lavoro!
Sado-Master(Chef)
Non si punta mai sulla loro bravura, in quel di MasterChef, quelli bravi vengono liquidati in fretta. Sono quelli che non brillano, un po’ fragili sia tecnicamente che emotivamente, a essere presi di mira. Con loro si può applicare alla letterea il teorema sul quale si basa l’intero programma, la competizione malata, l’essere disposti a tutto – tranne che al necessario – pur di riuscire.
Così intenerisce Daiana, con i suoi cinquanta e passa anni, con la sua vita piena d’amore (una che riesce a gestire, felicemente, ex marito e nuovo compagno ha tutta la mia ammirazione), con la sua nostalgia per la figlia. Intenerisce il fatto che nel corso delle puntate diventi un po’ la chioccia di Suien, mamma di un nugolo di bambini, disoccupata, con un passato e un presente difficili.
E gli autori ci sguazzano esercitando la crudeltà con grande sapienza, enfatizzando per puntate e puntate l’amicizia fra le due, salvo poi metterle l’una contro l’altra, rivali in uno scontro all’ultimo sangue. Le due si disperano, Daiana vorrebbe quasi sacrificarsi, sottrarsi alla lotta. Ma poi, con un clamoroso gesto di magnanimità scritto in copione, le due vengono risparmiate. Per quella puntata non ci saranno eliminati.
Viene fatto fuori subito Federico, un po’ perché i suoi piatti vengono ritenuti immangiabili – cosa della quale io rimango scettica – molto perché non si lascia umiliare, ironizza. Se anche Bastianich lancia i piatti all’interno dello studio come si farebbe con un frisbee sulla spiaggia, Federico non si scompone e dai suoi occhi, ben lungi dalla contrizione, traspare una scintilla di compassione per ciò che quel povero cristo di Joe si abbassa a fare, pur di restare nel personaggio.
Ogni gruppo ha poi un capro espiatorio, un elemento contro cui coalizzarsi per sentirsi più forti, complici e sodali. Quest’anno al casting si sono trovati in grande difficoltà perché c’erano ben due concorrenti che potevano ricoprire quel ruolo: Letizia e Tiziana, affini addirittura nel nome. Nell’imbarazzo della scelta le hanno scelte entrambe, lasciando che fossero i concorrenti stessi, in modo naturale e spontaneo, a trovare quella da odiare.
A trionfare è stata Tiziana, quarantunenne avvocato in carriera, in apparenza coriacea ma in fondo poco avvezza a sporcarsi le mani. Tiziana che, lo si capisce chiaramente, è forte di un’ottima estrazione sociale e di una solida posizione economica, è naturalmente superba.
Dittatoriale ma non carismatica, poco attraente fisicamente e caratterialmente, con una voce che sortisce lo stesso effetto fastidioso di quando la parte meno friabile del gesso viene passata sulla lavagna, non particolarmente creativa, è geneticamente destinata all’emarginazione all’interno del gruppo ma – e qui mi sbilancio – è anche la candidata ideale alla vittoria, se gli autori vogliono far bene il loro compitino.
Sta di fatto, e qui si torna a bomba, che i ragazzetti figli dei miei amici, ma in definitiva la gran parte degli spettatori, non sanno o fingono di non sapere che i reality e i talent altro non sono che fiction. Sono pensati a tavolino, scritti con cura, girati e montati ad arte proprio al servizio di quella scrittura. Bastianich è un attore, lo sono Cracco e Barbieri, lo sono i concorrenti.
A tavolino sono pensate le umiliazioni inflitte ai concorrenti, le denigrazioni, le tensioni esplicite o serpeggianti, il build up to cut down. Tutto il resto si perde, o comunque non conta.
Non conta avere rispetto per le persone, non conta avere rispetto per il cibo – che viene bistrattato, offeso, sprecato -, non conta avere rispetto per una professione – quella dello chef – che non si improvvisa, che non prevede che si brucino le tappe arrivando a esercitarla senza avere le conoscenze e le competenze necessarie.
Perciò, ragazzetti miei, io me ne resto a casa mia, a cucinare per gli amici, a fare marmellate e biscotti per voi, a preparare i piatti che mi piacciono davvero.
Questi giochetti, se permettete, li lascio ad altri.
BISCOTTI AI DATTERI E SESAMO
per circa 75 biscotti
250 g di farina 0
160 g di burro
100 g di zucchero demerara
1 uovo categoria A
160 g di datteri freschi pesati senza nòcciolo
50 g di semi di sesamo
i semini di mezzo baccello di vaniglia
1 pizzico di sale
Nonostante quanto scritto fino ad ora, l’interesse per la cucina dei miei amati ragazzetti va in qualche modo premiato. Perciò oggi si preparano i biscotti, e non i soliti chocolate chips cookie la cui preparazione è ormai familiare a molti di loro, ma qualcosa dal sapore un po’ più particolare e con quel tocco di esotismo che sicuramente li affascinerà.
Come sempre, si tratta di una ricetta facile, trovata qualche anno fa su La cucina italiana e poi un po’ modificata, almeno per quanto riguarda la preparazione.
Si comincia montando il burro morbido con lo zucchero, il sale e i semini della vaniglia. Quando questo miscuglio risulterà omogeneo e avrà cambiato colore diventando più chiaro, si aggiungono l’uovo, la farina, e quindi i datteri a pezzetti.
Ne verrà fuori un impasto quasi immaneggiabile tanto che è appiccicoso. Armati di buona volontà, si dovrà quindi farne una palla che poi, avvolta nel cellophane, bisognerà scordare in frigo per una mezza giornata.
Trascorso questo tempo, bisognerà dividere l’impasto in due parti e, rotolandone una alla volta su un foglio di carta forno, formare due cilindri di circa 3 cm di diametro.
Dovrete allora sistemare i semi di sesamo in un vassoio che contenga in lunghezza i cilindretti, passarveli dentro avendo cura che il sesamo si appiccichi all’impasto in modo omogeneo e mettere il tutto nuovamente al freddo, questa volta in freezer per almeno un’ora.
L’ultimo passaggio è quello che dà maggiore soddisfazione. Estratti i cilindretti dal freezer, basta tagliarli in fette da un centimetro che poi andranno disposte, a un paio di centimetri di distanza le une dalle altre, su una placchetta rivestita di carta forno.
Cuocere per 25 minuti in forno preriscaldato a 170°, farli raffreddare su una gratella e mangiarli a sazietà (ma solo se siete bambini, avete un metabolismo da veri sportivi o avete un tremendo bisogno di consolazione).
Big Girls WANT Cry
Protagonista della serie è Hannah, interpretata da Lena Dunham che, oltre a recitarvi, ha creato, sceneggiato, diretto e prodotto Girls. Ma se qualsiasi fanciulla che si aggirasse intorno ai trent’anni alla fine del secolo scorso ha desiderato almeno una volta essere Carrie Bradshaw, dubito seriamente esista al mondo anche una sola venticinquenne che desideri essere Hannah Horvath.
Hannah è una ragazza bruttina con qualche chilo di troppo, che ha le spalle perennemente curve, cammina con i piedi a papera, mangia di continuo – soprattutto gelati – e in modo ripugnante, tenendo la bocca aperta, e sembra scegliere con cura qualsiasi capo di abbigliamento possa mortificare ulteriormente un fisico non felice.
Vive a New York, mantenuta dai genitori, in attesa che decolli la sua sfolgorante carriera di scrittrice. Ah bene, penserete, Hannah non è esteticamente gradevole ma compensa con talento e intelligenza! Peccato che Hannah non scriva null’altro che il proprio diario, che tiene sul comodino, e del suo lavoro di scrittrice non faccia che parlare, come se bastasse fare quello per dare concretezza ai suoi progetti.
Insomma Hannah è uno strano miscuglio di egocentrismo e complesso di inferiorità, è fragile e al tempo stesso crudele.
Le sue compagne di viaggio, la coinquilina Marnie, Shoshanna e la sua snobissima cugina inglese, Jessa, non hanno invece la forza per essere delle vere comprimarie.
La rigida Marnie, che ha pianificato la propria vita al punto che pur non amando più il fidanzato storico non lo lascia per non sconvolgere i propri programmi, Shoshanna, che sebbene viva in un finto mondo perfetto in cui si indossa sempre l’abito giusto per l’occasione giusta, ci si pettina e ci si trucca nel modo giusto, si parla e perfino si pensa nel modo giusto, non ha trovato nella sua infinita perfezione nessuno che si sia degnato di andare a letto con lei, Jessa, che invece ne ha trovati fin troppi, e ne parla svogliatamente mentre fuma una sigaretta e filosofeggia con aplomb da hipster, sono poco più che stereotipi.
Sono ragazze che sicuramente Lena Dunham ha incrociato e invidiato, oppure compatito o ancora deriso, ma che non si sforza di indagare più di tanto, limitandosi a restituirne un ritratto superficiale e un po’ grottesco.
Quello che la Dunham fa, bisogna riconoscerlo, con una certa abilità, è in definitiva confondere le acque. Finge di parlare di una generazione per parlare in realtà di se stessa, con evidente intento catartico.
Infatti se Marnie, Shoshanna e Jessa sono finte, Hannah è invece dolorosamente vera. Il suo volersi male, il suo sentirsi inadeguata nei confronti di chiunque abbia più talento di lei ancor prima che nei confronti di chi sia esteticamente più gradevole, il suo cercare i consigli delle amiche per averne in realtà l’approvazione, il suo accettare qualsiasi compromesso sessuale pur di sentirsi voluta e amata, il suo terrorizzarsi quando poi invece amata lo è davvero, quasi sentisse di non meritarlo, sono sentimenti che molte di noi hanno provato.
Sicuramente li ho provati io, ed è per questo che – pur riconoscendo l’innegabile talento di Lena Dunham – ho guardato Girls con grande disagio.
I panni sporchi, se permettete, si lavano in famiglia.
O tutt’al più nello studio dello psicanalista.
Girls
dal 10 ottobre alle 23.10 su MTV
(scusate il ritardo, sarà stato un lapsus freudiano)
GELATO AL MIELE, LAVANDA E ROSMARINO
6 tuorli di uova categoria A
150 g di miele d’acacia
50 g di zucchero
300 g di latte intero
200 g di panna
1 rametto di rosmarino
1 cucchiaio e mezzo di fiori di lavanda
UNA GELATIERA
Avete letto bene, la gelatiera compare fra gli ingredienti perché, credetemi, se non l’avete è meglio che non vi mettiate proprio all’opera. Io, che ho visto tragicamente defungere la mia mentre stavo preparando il gelato, ci ho messo mezza giornata per portare a compimento quanto iniziato, e il risultato non è stato affatto soddisfacente come al solito.
Io vi ho avvisati…
Per preparare questo gelato aromatico ed evocativo (sempre ammesso che abbiate la gelatiera), dovete innanzitutto riscaldare il latte e la panna con il rosmarino e i fiori di lavanda fino a portarli a bollore.
Contemporaneamente, servendovi di una frusta elettrica (io l’ho fatto a mano perché quel giorno anche la mia frusta elettrica si è ammutinata, ma spero che voi siate più fortunati) montate i tuorli con lo zucchero e il miele fino a ottenere un composto chiaro e spumoso.
Aggiungete quindi a filo il latte ancora caldo, dal quale avrete avuto cura di eliminare il rametto di rosmarino, e rimettete tutto sul fuoco, mescolando di continuo con una spatola in modo da descrivere un 8 nella pentola, fin quando il composto non comincerà a velare la spatola, ma evitando che giunga ad ebollizione trasformandosi in una stracciatella.
Ciò fatto, lasciate raffreddare quindi spostate il composto nella gelatiera e fate andare secondo le istruzioni della macchina.
Sono sicura che se Hannah Horvath avesse mangiato questo gelato, invece di quello comprato al carretto sotto casa, si sarebbe ricordata di tenere la bocca chiusa.
Una nonna hollywoodiana
It’s a (mad) men’s world
Ho riflettuto a lungo per cercare di capire cosa rendesse Mad Men così speciale e alla fine, in soldoni, credo che la sua grandezza risieda nella verità. Non nella veridicità, proprio nella verità.
Certo, perché l’epifania di far sembrare vera la finzione riuscisse, gli sceneggiatori si sono un po’ aiutati e così ci sono molti riferimenti – seppur a volte subliminali – alla cronaca e alla politica, e soprattutto ai generi di consumo, ai brand (dopotutto si narra di pubblicitari), ai cibi, alle bevande. Insomma, la verità del dettaglio ci fa credere che sia vero anche il contesto in cui quel dettaglio è collocato.
Si guarda Mad Men e ci si sente catapultati in uno scenario che si conosce e, seppur ammantato dalla patina dei ricordi, ci è straordinariamente familiare. Quanti fra quelli della mia generazione hanno consumato una cena a base di wurstel in lattina mangiati in fretta al tavolo della cucina mentre la mamma in twin-set scalpitava per andare a prepararsi per uscire, e intanto tirava boccate nervose a una sigaretta? Quanti si sono visti proteggere a ogni frenata dell’auto dal braccio del papà teso a mo’ di barriera fra loro e il parabrezza? Quanti hanno guardato la tv sdraiati sul tappeto ai piedi del divano sul quale se ne stavano seduti, composti e un po’ rigidi, i genitori?
E mentre riconosciamo quel mondo, abbiamo modo di scrutarne i meccanismi che all’epoca della nostra infanzia ci sfuggivano. Finalmente sappiamo come era la vita dei nostri genitori come se oggi, con la consapevolezza e gli strumenti degli adulti, li stessimo spiando dal buco della serratura. In fin dei conti è un po’ come fare una bella psicoterapia, ma in modo più piacevole e a prezzi decisamente più contenuti. E non credo sia poco.
Nel frattempo ci struggiamo per quello che fino al 2007 ci sembrava obsoleto o addirittura di cattivo gusto: le pettinature cotonate, i vestitini fine anni cinquanta, poi anni sessanta e adesso fine anni sessanta, le procaci curve di Joan Harris, i capelli impomatati di Don Draper, i mobili vintage (tutta roba che è transitata nelle nostre case e di cui i nostri genitori poi si sono liberati), quel bere, mangiare e fumare senza tregua, nella beata ignoranza delle conseguenze di questi atti scellerati.
Il 25 marzo di quest’anno, dopo 17 mesi di estenuante attesa, finalmente è cominciata la quinta stagione di Mad Men con un doppio episodio che ritengo entrerà nella storia della televisione, ma che per il momento ha già fornito nuovo, preziosissimo materiale all’immaginario erotico dei signori uomini. Facendo correre a ritmo leggermente accelerato le lancette dell’orologio (ma mai come in Downton Abbey dove in due stagioni si copre un arco temporale di otto anni), siamo arrivati al 1968 e tutto lascia supporre che ne vedremo delle belle.
Attingete alla fresca acqua del torrente, cari lettori.
Vi assicuro che ne vale la pena.
BANANA NUT BREAD
Per una teglia da plumcake di 20×10 cm
Vi avviso, è una ricetta americana e pertanto americane saranno le quantità, indicate in tazze, cucchiai e cucchiaini.
2/3 di tazza di latte intero
1 cucchiaio di succo di limone
2 tazze e 1/2 di farina 0 setacciata
1 cucchiaino e 1/2 di lievito vanigliato
1 pizzico bello grande di sale
1/2 tazza di burro
2/3 di tazza di zucchero
2/3 di tazza di noci tritate
2 uova grandi categoria A
2 banane talmente mature da risultare quasi immangiabili
Dovendo abbinare una ricetta a questo post, come prima cosa mi è venuto in mente il tipico meat loaf americano, quello servito con contorno di mashed potato e accompagnato dall’immancabile bicchiere di latte. Negli anni ’70, quando guardavamo alla tv con il dovuto ritardo le serie televisive di una decina di anni prima, non c’era cena in famiglia che non prevedesse questo menu. Poi ho pensato che fosse tutto un po’ troppo facile e così ho ripiegato su questo pane profumato e gustoso, che è un altro grande classico dell’epoca.
Benché questa ricetta sia stata messa a punto negli anni ’30, è a metà degli anni ’50 – quando fu inserita nel celebre ricettario Chiquita – che cominciò a diffondersi in tutti gli Stati Uniti. Grazie alla velocità e alla semplicità del procedimento, che ne rendevano agevole la preparazione a qualsiasi casalinga, negli anni ’60 non c’era casa in cui non fosse sfornato con una certa regolarità.
Veniamo a noi. Per cominciare accendete il forno a 180° e imburrate uno stampo da plumcake di cui rivestirete il fondo con la carta forno. Mescolate in una ciotola gli ingredienti secchi e teneteli da parte. Intanto unite il succo di limone al latte, girate con cura e aspettate che cagli (ci vorrà almeno un minuto). Nell’attesa, montate con la frusta elettrica il burro ammorbidito e lo zucchero. Quando il composto sarà diventato chiaro e spumoso, aggiungete le uova una alla volta avendo cura di aspettare che il primo si sia amalgamato prima di unire il secondo. A questo punto aggiungete le banane schiacciate, quindi gli ingredienti secchi alternati al latte cagliato. Lavorate fin quando la miscela non risulterà soffice e liscia, poi aggiungete le noci tritate e mescolate un’ultima volta. Versate il composto nello stampo, livellatelo battendo un paio di volte la teglia sul ripiano della cucina protetto da un canovaccio piegato, e infornate. Cuocete per un’ora e sfornate solo dopo aver verificato con uno stecchino di legno che l’interno del pane sia asciutto.
Il delitto è servito
Yashim ne è consapevole e si strugge in silenzio opponendo però una tenace resistenza ai cambiamenti che la modernità impone – è l’epoca in cui il turbante ha lasciato il posto al fez, la tunica alla marsina e le babucce a calze di lana e stivaletti allacciati – ben sapendo che nel mondo che si affaccia all’orizzonte non ci sarà più posto per lui, eunuco di corte a cui il Pascià ha consentito di vivere al di fuori delle mura dell’harem.
Yashim è talmente discreto da passare inosservato, è perspicace, agile, persuasivo, cauto. Ama la letteratura francese – nel primo libro che lo vede protagonista, L’albero dei giannizzeri, è introdotto al lettore mentre è immerso a tal punto nella lettura di Le relazioni pericolose da conversare idealmente con la marchesa di Merteuil -, conosce e parla correntemente un bel po’ di lingue straniere, adora cucinare (come del resto molti suoi colleghi detective).
Così come Poirot si accompagna ad Hastings, Sherlock Holmes a Watson, Nero Wolfe a Archie Goodwin (nomen omen!), Kay Scarpetta a Marino e via dicendo, anche Yashim ha un fedele compagno di avventure in Stanislaw Palewski, ambasciatore imperiale polacco presso la Sublime Porta.
Se il mondo di Yashim volge al tramonto, quello di Palewski è bello che estinto e forse è proprio per questo che i due formano una coppia perfetta. La Polonia infatti non esiste più, cancellata dalla carta geografica per opera di Russi, Prussiani e Austriaci, e a Palewski gli ottomani concedono di mantenere il titolo di ambasciatore, la residenza e versano perfino un piccolo stipendio solo perché la magnanimità verso l’antico nemico è indice della grandezza di un impero.
Palewski, dignitosissimo nella sua redingote lisa il cui nero ha ormai da tempo smesso di splendere assumendo una sfumatura verdastra, passa le giornate traducendo opere letterarie che mai verranno pubblicate e dando fondo alla scorta di liquori dell’ambasciata, accampato nell’unica stanza della magione che sia ancora abitabile. Coltissimo, e per questo spesso consultato, è stralunato e languido per quanto Yashim è attento e pratico.
Ma entrambi, seppur così diversi, contemplando la riva di Pera, dove un tempo sorgeva un grande platano sdradicato per costruire il ponte che unirà la parte asiatica e antica della città a quella internazionale, moderna e commerciale, soffrono con la stessa intensità per l’inesorabile avanzare del brutto a spazzare via tanta bellezza dalle loro vite.
Jason Goodwin
L’albero dei giannizzeri
Il serpente di pietra
Il ritratto Bellini
L’occhio del diavolo
Einaudi
RISO ALLA GRECA
Per una quindicina di persone
3 zucchine
3 melanzane
3 peperoni
3 cipolle
3 pugnetti di uva passa
1 kg di riso
olio di semi di arachide
sale
Ora, direte voi, cosa c’entra il riso alla greca con una serie di romanzi ambientati a Istanbul? Niente. Forse sarebbe stato più semplice scopiazzare una delle tante ricette – peraltro dettagliatissime – cucinate da Yashim ma, se come spero leggerete i libri, a quello ci penserete voi.
Semplicemente il riso alla greca è quanto di più esotico si sia mai cucinato a casa di mia madre, e tanto basta. La sua origine poi, a volerla dire tutta, non è neanche veramente greca ma squisitamente napoletana dato che questa ricetta – come quella del polpettone svedese – è stata inventata da tale Mario, geniale cuoco del circolo del bridge di Napoli negli anni ’80, che per rendere i propri piatti intriganti, attribuiva loro natali stranieri.
Preparare questa ricetta incantevole che, garantisco, conquista il palato di chiunque l’assaggi, è semplice quanto noioso perfino per chi, come me, adora armeggiare con i coltelli. Gran parte del lavoro consiste infatti nel tagliare in cubetti piccolissimi (non dico a brunoise ma quasi, mi terrei sugli 8 mm di lato) le zucchine, le melenzane, i peperoni e le cipolle.