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Il delitto è servito
Yashim ne è consapevole e si strugge in silenzio opponendo però una tenace resistenza ai cambiamenti che la modernità impone – è l’epoca in cui il turbante ha lasciato il posto al fez, la tunica alla marsina e le babucce a calze di lana e stivaletti allacciati – ben sapendo che nel mondo che si affaccia all’orizzonte non ci sarà più posto per lui, eunuco di corte a cui il Pascià ha consentito di vivere al di fuori delle mura dell’harem.
Yashim è talmente discreto da passare inosservato, è perspicace, agile, persuasivo, cauto. Ama la letteratura francese – nel primo libro che lo vede protagonista, L’albero dei giannizzeri, è introdotto al lettore mentre è immerso a tal punto nella lettura di Le relazioni pericolose da conversare idealmente con la marchesa di Merteuil -, conosce e parla correntemente un bel po’ di lingue straniere, adora cucinare (come del resto molti suoi colleghi detective).
Così come Poirot si accompagna ad Hastings, Sherlock Holmes a Watson, Nero Wolfe a Archie Goodwin (nomen omen!), Kay Scarpetta a Marino e via dicendo, anche Yashim ha un fedele compagno di avventure in Stanislaw Palewski, ambasciatore imperiale polacco presso la Sublime Porta.
Se il mondo di Yashim volge al tramonto, quello di Palewski è bello che estinto e forse è proprio per questo che i due formano una coppia perfetta. La Polonia infatti non esiste più, cancellata dalla carta geografica per opera di Russi, Prussiani e Austriaci, e a Palewski gli ottomani concedono di mantenere il titolo di ambasciatore, la residenza e versano perfino un piccolo stipendio solo perché la magnanimità verso l’antico nemico è indice della grandezza di un impero.
Palewski, dignitosissimo nella sua redingote lisa il cui nero ha ormai da tempo smesso di splendere assumendo una sfumatura verdastra, passa le giornate traducendo opere letterarie che mai verranno pubblicate e dando fondo alla scorta di liquori dell’ambasciata, accampato nell’unica stanza della magione che sia ancora abitabile. Coltissimo, e per questo spesso consultato, è stralunato e languido per quanto Yashim è attento e pratico.
Ma entrambi, seppur così diversi, contemplando la riva di Pera, dove un tempo sorgeva un grande platano sdradicato per costruire il ponte che unirà la parte asiatica e antica della città a quella internazionale, moderna e commerciale, soffrono con la stessa intensità per l’inesorabile avanzare del brutto a spazzare via tanta bellezza dalle loro vite.
Jason Goodwin
L’albero dei giannizzeri
Il serpente di pietra
Il ritratto Bellini
L’occhio del diavolo
Einaudi
RISO ALLA GRECA
Per una quindicina di persone
3 zucchine
3 melanzane
3 peperoni
3 cipolle
3 pugnetti di uva passa
1 kg di riso
olio di semi di arachide
sale
Ora, direte voi, cosa c’entra il riso alla greca con una serie di romanzi ambientati a Istanbul? Niente. Forse sarebbe stato più semplice scopiazzare una delle tante ricette – peraltro dettagliatissime – cucinate da Yashim ma, se come spero leggerete i libri, a quello ci penserete voi.
Semplicemente il riso alla greca è quanto di più esotico si sia mai cucinato a casa di mia madre, e tanto basta. La sua origine poi, a volerla dire tutta, non è neanche veramente greca ma squisitamente napoletana dato che questa ricetta – come quella del polpettone svedese – è stata inventata da tale Mario, geniale cuoco del circolo del bridge di Napoli negli anni ’80, che per rendere i propri piatti intriganti, attribuiva loro natali stranieri.
Preparare questa ricetta incantevole che, garantisco, conquista il palato di chiunque l’assaggi, è semplice quanto noioso perfino per chi, come me, adora armeggiare con i coltelli. Gran parte del lavoro consiste infatti nel tagliare in cubetti piccolissimi (non dico a brunoise ma quasi, mi terrei sugli 8 mm di lato) le zucchine, le melenzane, i peperoni e le cipolle.
Casalinghitudine
Aveva sposato un uomo di cui era pazzamente innamorata, più giovane di lei e bello di una bellezza inconsueta per un napoletano, visto che, essendo di madre danese, era molto alto, biondo e con gli occhi verdi, ma con cui non era mai, neppure per un giorno, andata d’accordo. Il matrimonio su di lui non aveva avuto alcun effetto tangibile dato che aveva continuato impunemente a condurre la stessa vita di sempre: dilapidava il patrimonio comprando prototipi di automobili, corteggiava le donne, entrava e usciva di casa senza dare spiegazioni. Se, una volta rientrato, la Titta gli chiedeva da dove venisse, lui rispondeva serafico “dall’ascensore” e lei andava su tutte le furie.
La Titta andava a messa tutte le mattine e tutte le mattine sfiniva il parroco di domande. Non riusciva a capire per quale motivo il padreterno perdonasse gli assassini, ma non avesse pietà per coloro che avevano fatto un matrimonio sbagliato. Ma, d’altra parte, che Dio fosse fallibile lo aveva già intuito, visto che aveva dotato gli esseri umani dei denti, che secondo lei rappresentavano un tormento costante dalla nascita alla morte. Fosse stata ancora viva quando ci fu il referendum per il divorzio, avrebbe brindato a champagne, perché finalmente giustizia era stata fatta.
Impossibilitata a scindere il proprio cammino da quello del coniuge, aveva optato per una sarcastica rassegnazione, propinata ai familiari attraverso delle massime esplicative del Titta-pensiero: “A prima mattina, uomini e spazzatura fuori di casa” (a quei tempi lo spazzino passava a ritirare i rifiuti al sorgere del sole, di casa in casa), “Gli uomini sono come le donne di servizio: cambi e devi imparare i difetti di un altro”, “Caro m’è costato, ma qua seduta sono rimasta e in casa mia comando io”.
Mi chiedo, com’è possibile che si possa non amare una donna così?
Il mondo è pieno di misteri.
PICCHIPACCHIA
Per 4 persone
600 g di pettola di spalla con cui avrete fatto un buon brodo
8 cipolle bianche
capperi sotto sale
2 cucchiai di zucchero
aceto di vino bianco
olio EVO
La picchipacchia è, fin dal nome, un’invenzione della nonna Titta. Lei che, soprattutto in cucina, detestava gli sprechi così come detestava mettere in tavola qualcosa che fosse meno che saporito, era un’esperta di riciclo gastronomico e questo era uno dei suoi capolavori. Consapevole che se si fa un buon brodo, e quindi si mette a cuocere la carne nell’acqua fredda, alla fine la carne sa di molto poco, la Titta la aggrazziava nel modo che mi accingo a illustrarvi.
Io ancora non l’ho capito.
Impara l’arte e mettila da parte
Le prime vacanze estive che io e il consorte abbiamo trascorso insieme sono state in montagna, a Roccaraso, dove io ho casa da sempre. Per convincerlo a partire ci volle il bello e il buono perché lui, che fino a quel momento aveva passato tutte le estati della sua vita tuffandosi ora nel mare di Ischia, ora in quello che lambisce le coste francesi, aveva un’avversione quasi genetica per qualsiasi località non fosse a quota zero. Io invece – che provo una voglia incredibile di correre (ma poi non lo faccio per paura che mi venga un infarto) e cantare a squarciagola “the hills are alive with the sound of music” ogni volta che vedo un montarozzo verde, tanto sono felice – ero sicura che avrebbe trovato la montagna rilassante ma al tempo stesso piena di stimoli e che la nostra sarebbe stata una vacanza indimenticabile. In effetti lo fu, ma per motivi completamente diversi da quelli che avevo immaginato.
Il consorte si rilassò talmente tanto, che trascorse i primi giorni in un stato letargico da cui riemergeva solo per nutrirsi, salvo poi annunciare, con tono disinvolto e l’ultimo boccone ancora da mandare giù, “Bene, io andrei a farmi un riposino”. Insomma, io facevo passeggiate lunghissime con i nostri cani, e lui dormiva; andavo a funghi, e lui dormiva; coglievo le amarene e facevo la marmellata, e lui dormiva. Dopo una settimana di questo avvilente tran tran, decisi di correre ai ripari e cominciai a somministrargli dosi massicce di caffè per tenerlo sveglio. Non fu un gran successo, ma ottenni che almeno si spostasse dal letto alla sdraio in giardino, con al seguito un libro preso a casaccio nella mini biblioteca di casa. Il libro in questione era I pilastri della Terra di Ken Follett, uno di quegli easy reading con poco stile e molto plot, che però quando prendi in mano non riesci più a mollare. E infatti il consorte non lo mollò e, scoprendosi avido lettore, cominciò a trascorrere più tempo in compagnia di Ken Follett che con me.
Immagino che molti di voi abbiano letto questo libro ma per coloro che invece ne ignorano il contenuto, riassumerò la trama riducendola all’essenziale (e qui ci vuole un triplo salto mortale, perché stiamo parlando di più di mille pagine di roba). Siamo in Inghilterra, agli inizi del XII secolo e tutto – amori, tradimenti, lotte per il potere, complotti, nascite, morti, rovesci finanziari, improvvise fortune… insomma, altro che soap opera! – ruota intorno alla costruzione di una cattedrale gotica per il priorato dell’immaginaria cittadina di Kingsbridge. Protagonista della prima parte del libro (la storia copre un arco temporale di 50 anni) è Tom il costruttore, colui che per primo cura il progetto della cattedrale e ne avvia il cantiere.
Avete presente quando da bambini andavate al cinema e, finito il film, eravate così esaltati che volevate fare le stesse cose del protagonista? A me succedeva con Calamity Jane, al consorte accadde con Tom il costruttore; solo che il consorte aveva già più di trent’anni. Sorto dalla sdraio, nei rari momenti in cui interrompeva la lettura, si guardava intorno con occhio clinico in cerca di qualcosa da riparare e progettando migliorie da fare in casa o in giardino. Il povero che, avendo studiato scienze politiche, era considerato un po’ l’intellettuale di famiglia, e di conseguenza tenuto alla larga da qualsiasi operazione di bricolage dal padre pittore e dal fratello scenografo, a Roccaraso, lontano dal loro giudizio, fu finalmente libero di esprimersi.
Dopo lunghe consultazioni con la signora Chiaverini, proprietaria dell’unico negozio di ferramenta e materiali edili del paese, cominciò con opere di falegnameria, smontando tutti gli scuri e restaurandoli con pazienza fino a farli diventare come nuovi, poi passò alle opere murarie, rifacendo il tetto in tegole della legnaia e infine si dette alla pittura, dipingendo di color lavanda la nostra camera da letto. Improvvisamente cominciò a vedere il mondo con occhi diversi, qualsiasi cosa poteva essere aggiustata, rimodernata, riutilizzata, trasformata. Proponeva passeggiate in montagna per raccogliere pietre con cui bordare le aiuole, incursioni nel bosco per raccogliere legna per la staccionata. A breve diventò estenuante e, chi l’avrebbe mai detto, finii col rimpiangere i primi giorni di vacanza in cui il consorte dormiva e neanche in sogno immaginava di trasformare la casa in un cantiere. Quando mi annunciò che avrebbe messo mano alla canna fumaria del camino, capii che bisognava fermarlo ma ormai era troppo tardi. “Christian!” – lo chiamai con tono battagliero ma lui, voltandosi con le braccia conserte e il trapano accostato al torace e impugnato a mo’ di pistola, mi redarguì: “Da oggi chiamami il costruttore. Tom il costruttore”.
INVOLTINI DI PROSCIUTTO DI MAIALE ALL’ARANCIA CON RIPIENO RICICLATO
Per 4 persone
4 fette di prosciutto di maiale
1 cipolla bianca bella grande
il succo di 3 arance
le zeste di un’arancia
1 pugnetto di uva passa
olio EVO, sale, pepe
PER IL RIPIENO
Pangrattato
Parmigiano
scorza d’arancia grattugiata
succo d’arancia
pistacchi
uva passa
olio EVO
Visto che siamo in argomento, si sappia che io ho verso la cucina lo stesso atteggiamento che ha il consorte nei confronti delle opere di bricolage: non getto via niente ma trasformo e riciclo qualsiasi cosa (una volta ho perfino fatto una frittata con un residuo di minestrone, e ho detto tutto). Questi involtini sono stati infatti preparati, in un afflato creativo del sabato sera, con il ripieno avanzato delle alici cucinate per la cena dei 70 anni di mia madre, il mercoledì precedente. Nell’elenco degli ingredienti del ripieno non ci sono quindi indicazioni per le quantità, ma non dovrebbe essere difficile mescolarli secondo il vostro gusto, avendo cura che il pangrattato prevalga comunque su tutti gli altri e che i pistacchi diano la giusta nota croccante.
Battete un po’ le fettine di maiale in modo da assottigliarle e allargarle per bene. Spargete uniformemente su ogni fettina tanto ripieno quanto basta a ricoprirla completamente, ripiegate i bordi laterali di ogni fettina così che il ripieno non fuoriesca, e poi arrotolatela su se stessa fino a ottenere un rotolino compatto che poi legherete con dello spago da cucina. In un tegame, fate appassire la cipolla tritata in un paio di cucchiai d’olio, quindi aggiungete gli involtini e sigillateli per bene facendoli rosolare su tutti i lati. A questo punto aggiungete l’uva passa, le zeste dell’arancia e, dopo un minuto, il succo delle arance filtrato. Aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere lentamente a fuoco dolce fin quando il succo d’arancia non si sarà ristretto del tutto, assumento una consistenza quasi gelatinosa. Fate intiepidire, tagliate l’involtino a fettine doppie un centimetro e mezzo e servitele – sempre se vi va – con del purè di patate fatto in casa.