Autore: benedetta gargano
Un nuovo inizio
Per 1 Daiquiri
6 cl di rum bianco
3 cl di succo di lime fresco
1 cucchiaio raso di sciroppo di zucchero
In uno shaker riempito per 3/4 di cubetti di ghiaccio, aggiungete uno dopo l’altro tutti gli ingredienti e agitate con decisione e accuratezza per dieci secondi, quindi filtrate in una coppetta da cocktail già raffreddata. Il cocktail può essere finito con uno spicchio di lime oppure strofinandone la buccia sui bordi e sull’esterno della coppetta per far sì che rilasci i suoi profumati oli essenziali.
Enjoy
Il magico potere della dieta
Origini
Se è vero che sono necessarie sette generazioni per fare una schizofrenica, sono certa che ne servano altrettante per fare una cuoca. Nel mio caso, ahimè, ci fermiamo alla quinta generazione e non c’è modo di barare perché nella mia famiglia si sa precisamente chi fu la prima ad allacciarsi un grembiale in vita e mettersi ai fornelli: la nonna Elena, la mia trisavola.
La nonna Elena era la figlia di Salvatore Fusco – il gentiluomo con i favoriti che vedete nel ritratto – principe del foro che fu prima sindaco di Napoli e poi senatore della Repubblica. Abitava con la famiglia in via Filangieri, a Palazzo Fusco, per l’appunto, ed era una delle ragazze da marito più corteggiate di Napoli.
La nonna Elena era una ragazza bella e simpatica, ma aveva un difetto che mandava il padre su tutte le furie: ai salotti della Napoli bene preferiva di gran lunga le cucine. A quell’epoca – badate, stiamo parlando degli anni intorno al 1880 – in cucina ci stavano cuoche e sguattere, non certo le signorine altolocate, ma la nonna Elena era testarda e mantenne le posizioni.
La passione delle donne della mia famiglia per le cucinelle nasce da lì, dalla caparbietà della nonna Elena. Nella storia familiare rimangono leggendarie le sue gelatine di frutta, le sue palle di tagliolini, la galantina e il sartù di riso, che la nonna Elena imbottiva con la genovese.
Lo stampo del sartù – insieme al mortaio di marmo e alla pesciera, che nella sua carriera di caccavella non vide mai pesce ma sempre e soltanto galantine – è stato tramandato di madre in figlia fino a giungere a me, accompagnato da relativa ricetta e dosi collaudate ad hoc, e io ve ne faccio omaggio perché, ve lo assicuro, questo sartù è un’opera d’arte e in quanto tale va condiviso.
Rimboccatevi le maniche, ché l’impresa è impegnativa.
Olio di arachidi
Per lo stampo
burro
pangrattato
Storie di ordinaria anarchia
The long and winding road
L’altro giorno ho incontrato una persona che non vedevo da una quindicina di anni. È stata lei a notarmi e a venirmi incontro con un sorriso da rimpatriata. Mi ha salutata con affetto benché la nostra sia sempre stata poco più di una conoscenza estiva, ma subito l’occhio l’è corso alla mia mano sinistra per vedere se ci fosse ancora la fede.
Mi si guarda con biasimo perché sono una grande obesa e se lo sono è perché evidentemente non ho voluto risolvere il problema.
Lo pensa perfino mio marito, duole ammetterlo, convinto inconsciamente che io non dimagrisca per fargli dispetto. Vive, esattamente come lo facevano i miei genitori, il mio essere grassa come una forma di disamore nei suoi confronti senza essere neanche sfiorato dal sospetto che l’unica forma di disamore sia verso me stessa.
D’altra parte è abbastanza tipico. Il fatto che io sia così grassa è una cosa che dovrebbe essere intima, un disagio personale; dopotutto sono io che mi confronto tutti i giorni con le articolazioni che scricchiolano, con l’affanno, con la difficoltà di vestirmi come mi piacerebbe, con i segni dei braccioli delle sedie impressi sulle cosce. Invece no. Invece lo spazio fisico che occupo nel mondo sembra essere un problema soprattutto per gli altri. Si sentono a disagio in mia presenza come lo sono davanti a una persona portatrice di handicap. Mi insultano se sono rozzi e ignoranti, mi guardano con disappunto se sono acculturati.
Molti vogliono salvarmi senza accorgersi della loro miopia.
Tizio si è operato e adesso guarda come sta dimagrendo, perché non lo fai pure tu?
Certo, loro guardano tizio, vedono che sta perdendo peso e tanto basta. Ma lo guardano davvero? Si accorgono che la maggior parte delle calorie che introduce nel suo corpo sono quelle degli alcolici? Si accorgono che la compulsione è rimasta la stessa? Si accorgono che questa persona non sta facendo alcun passo avanti, anzi sta andando indietro?
Sono sicura di no. In fondo lo so per esperienza personale, è difficile comprendere gli obesi.
Allora oggi che sono arrabbiata lo spiego qui, sperando che sia una volta per tutte.
Io non sto cercando di capire come dimagrire, sto cercando di imparare a volermi bene, a prendermi cura di me.
È più difficile di qualsiasi cosa abbia fatto prima. Più difficile del chiudermi sei mesi in ospedale per dimagrire, più difficile dell’affermarmi professionalmente, più difficile del trovare l’amore, più difficile dell’accettare l’idea di non avere figli, più difficile del sopravvivere alla delusione e alla vergogna di aver perso tanti chili tante volte e poi essere tornata più grassa di prima.
Ma va bene così.
Porridge di crusca d’avena
crusca d’avena 50 g
latte 250 g
miele 1 ts
frutti di bosco 50 g
semi e frutta secca 30 g
Da un paio di anni questa è diventata la mia colazione. L’ho scelta perché avevo voglia di iniziare le mie giornate con qualcosa di più sano, ma al primo assaggio è stato amore. Non so se esista una memoria genetica del cibo, ma quando mangio il porridge ho l’impressione che il mio sangue danese scorra nelle vene con maggior vigore, e mi sento a casa.
Per prepararlo ci vogliono non più di cinque minuti, state tranquilli. Si tratta di mettere la crusca in un pentolino, aggiungere il latte – vale tutto: latte vaccino, d’avena, di riso… vale perfino l’acqua – e portare a bollore tenendo la fiamma bassa. Una volta che il composto comincia a borbottare, continuate la cottura per un paio di minuti quindi aggiungete il miele, mescolate bene e trasferite il tutto in una ciotola. Guarnite con i frutti di bosco, i semi e la frutta secca – anche in questo caso vale tutto, sbizzarritevi secondo il vostro gusto – e il gioco è fatto.
Come sempre, fatemi sapere. E sì, valgono anche gli insulti.
Due anni vissuti pericolosamente
Da noi la nonna ha scoperto il mondo. Abituata com’era a passare le giornate da sola, con l’unica compagnia della tv generalista che, parole sue, trasmette solo roba per vecchi, si è trovata catapultata nel luogo delle mille possibilità. Un vorrei tanto rivedere My fair lady buttato lì per caso durante il pranzo, si trasformava d’incanto nel guardarlo effettivamente nel primo pomeriggio.
Estsiata da quel prodigio, ha voluto conoscerne ogni segreto. Così, mentre io maledico ogni aggiornamento dell’IOS perché mi pesa abituarmi alle novità (scorro ancora il dito sul display per accedere alla schermata home), lei ha fatto amicizia con i download, lo streaming, le webradio, gli hard-disk esterni, le chiavette usb.
La sua passione però è l’iPad. Inizialmente denominato “il cosariello tuo”, è poi diventato l’Aipan e infine, quando le ho fatto presente che ci voleva la D, il DAIPAN.
Da lì poi è stata tutta una corsa verso il progresso tecnologico: facebook, instagram, i selfie, shazam. Nel giro di qualche mese mia nonna, con le sue uscite fulminanti, la sua ironia, la sua voglia di vivere, la sua passione per il calcio, per gli uomini belli, per il cibo buono, per il whisky e il cioccolato, è diventata una celebrità del web. Mia nonna è diventata La nonna, un essere magnifico di cui io, umile biografa, narro le gesta con cadenza quasi quotidiana su facebook, cercando di restituire almeno un po’ del fascino che questa donna straordinaria possiede.
Quindi è questo che è successo, è per questo che non c’è più stato tempo per il blog: sono ridiventata nipote a tempo pieno come quando ero bambina e le mie ore più belle erano quelle trascorse con la nonna.
Domani la mia nonna compie 99 anni o meglio, come dice lei, mette il piede nei 100. L’abbiamo festeggiata sabato scorso con un pranzo a sorpresa che prevedeva qualsiasi cosa, dalle crespelle besciamella e piselli alle quiche, alla zucca di Ottolenghi e alle polpettine di maiale all’uva bianca. La nonna ha gradito ogni portata e ha spento le candeline circondata da figli, nipoti e pronipoti, una piccola folla osannante. Però domani, domani che è davvero la sua festa, mi ha chiesto qualcosa di semplice perché alla sua età non è il caso di fare stravizi e così, nonostante il clima sia molto più estivo che autunnale, le preparerò il minestrone di casa sua, quello che ho amato fin dalla tenera età perché, come dice mia nonna, in fondo io sono sempre stata più vecchiarella di lei.
per due persone
1 cipolla
2 belle coste di sedano
2 carote
2 patate medie
1/2 cespo di scarola
60 g di riso
2 cucchiai di olio
sale
Questo, l’avete capito, è uno dei piatti della mia infanzia. Confortante come sanno esserlo solo i cibi esenti da sensi di colpa e che portano con sé i primi freddi, i colori delle foglie cadute e le giornate che si accorciano. Mia nonna è sempre stata una donna sbrigativa. Nella pur vasta aneddotica familiare, spicca il racconto di quando in meno di un minuto riparò la fodera dei pantaloni di mio nonno, scucita all’altezza delle ginocchia, scartando immediatamente l’ipotesi di rammendarla e optando invece per un rapido strappo, tipo ceretta.
Questo minestrone, di esecuzione elementare, rispecchia in pieno la sua filosofia del poca spesa molta resa. Procedete così: lavate le verdure, quindi tritate la cipolla e fatela soffriggere insieme all’olio in una pentola capiente facendo attenzione che appassisca senza bruciare. Aggiungete il sedano, le carote e le patate tutte tagliate a tocchetti di media grandezza (non state e scimunirvi, direbbe la nonna). Lasciate rosolare per qualche attimo quindi unite la scarola tagliata in striscioline sottili e salate. Coprite la pentola, attendete qualche attimo che la scarola appassisca e aggiungete tanta acqua quanta è necessaria a coprire di un paio di dita le verdure. Quando le patate saranno morbide ma non ancora disfatte, calate il riso e portate a cottura aggiungendo, se è il caso, tanta acqua quanta è necessaria per ottenere una minestra brodosa. Servite con abbondante parmigiano e, se vi piace, un po’ di pepe nero appena macinato.
Non tutti i mali vengono per cuocere
Quest’anno il programma è particolarmente ricco di sorprese, ricchi premi e cotillon. Ci saranno le ormai consuete lezioni a tema, ma ci saranno anche degli incontri serali monografici – li abbiamo chiamati “dalla A alla Z” – in cui proveremo a rendere a prova di dummies alcuni classici della cucina partenopea (e non solo) delle feste.
Naturalmente ci sarà il consorte con i suoi cocktail (il ragazzo mi si sta trasformando in un hipster dal baffo incerato, preparatevi), ci saranno le mitiche dispense e, in caso di partita del Napoli, ci sarà di nuovo l’opzione “trattieniti con noi e guarda la partita con la nonna”.
Nostalgici di Downton Abbey, questo è il corso che fa per voi. Tramezzini, canapè, mousse, scone, marmellate, tutto deliziosamente vintage e tutto a prova di dummies.
A comprarli si spende un capitale, a farli ci si annoia a morte. Se poi sei un dummie culinario il solo pensiero di mettere le mani in pasta ti fa venire i brividi. Tuttavia esiste un metodo anarchico di confezionare questo dolce che, ve lo garantisco, rende la preparazione degli struffoli un gioco da ragazzi. Sì, esatto, anche nel caso che quei ragazzi siano dei dummies senza speranza.